Rischia sempre una condanna per diffamazione chi apostrofa una persona dandole del “frocio”.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19359 del 17 maggio 2021, con la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso di un transessuale che aveva, attraverso Facebook, sostenuto la «presunta omosessualità» di un uomo, apostrofandolo come «frocio» e «schifoso».

L’imputato, condannato per diffamazione sia in primo che in secondo grado, aveva impugnato la decisione pronunciata dalla Corte d’appello di Milano nel gennaio 2020, contestando nel suo ricorso il «carattere diffamatorio» delle espressioni al centro del processo, che, a suo parere, avrebbero perso il carattere dispregiativo ad esse attribuito dai giudici del merito.

Una tesi, questa, che la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte, invece, definisce «destituita di ogni fondamento».

Per la Corte, infatti, «le suddette espressioni costituiscono, al contrario, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall’imputato».

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