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All’udienza dello scorso 24 febbraio 2023, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei legali di Alfredo Cospito avverso l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, che in data 1 dicembre 2022 aveva rigettato il reclamo contro l’applicazione al detenuto del regime differenziato previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.

Attualmente ricoverato nel reparto penitenziario dell’Ospedale San Paolo di Milano, Alfredo Cospito risulta essere detenuto nel carcere di Opera dal 2012 in esecuzione di una condanna definitiva di oltre 12 anni per i reati, fra l’altro, di attentato per finalità terroristiche o di eversione; inoltre, egli risulta essere ristretto in regime di custodia cautelare in carcere per altri reati, fra cui un attentato per finalità di terrorismo e tentata strage in concorso con altre persone.

Dal maggio 2022, Cospito è sottoposto al regime trattamentale previsto dall’art. 41 bis.

Il “caso Cospito” ha di recente riacceso i riflettori sul regime penitenziario dell’art. 41 bis, complice anche l’arresto del boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, sottoposto anch’egli al regime cosiddetto del “carcere duro”.

Agli inizi di febbraio 2023, il clamore mediatico attorno a questo tema ha accresciuto le tensioni sociali, sfociate in violente proteste di piazza, sia a Roma che in altre città.

In un quadro ove diritto e politica si intrecciando quasi a confondersi, taluni esponenti del mondo dell’informazione così come del mondo giuridico hanno avvertito l’esigenza di chiarie i termini di un dibattito, che in sede parlamentare sembra essere stato strumentalizzato a fini politici, con attacchi incrociati tra le varie forze politiche in campo, ove il “caso Cospito” sembra rappresentare un espediente.

Anche il Procuratore generale presso la Corte di cassazione nella requisitoria dello scorso 24 febbraio ha ritenuto doveroso tracciare le coordinate ermeneutiche del regime differenziato del 41 bis.

Dal punto di vista giuridico, l’art. 41 bis fu introdotto nell’ordinamento penitenziario (l. 354/1975) dalla l. n. 663/1986, al fine di prevenire situazioni di pericolo interne al carcere, ad esempio le rivolte. Il regime del “carcere duro” subì un profondo mutamento a seguito delle stragi di mafia degli anni ’90 ad opera del «decreto antimafia Martelli-Scotti», ove assunse i connotati che oggi ancora lo caratterizzano. A seguito della riforma del 2002, è divenuto un istituto permanente dell’ordinamento penitenziario.

L’attuale disciplina prescrive la possibilità per il Ministero della giustizia di applicare il regime del “carcere duro” a indagati, imputati o condannati per reati di stampo mafioso, terroristico o di eversione dell’ordine democratico, con lo scopo di ostacolare la comunicazione tra i detenuti e le organizzazioni operanti nel mondo esterno e di recidere ogni legame con contesti delinquenziali di riferimento del detenuto. Le limitazioni al trattamento ordinario possono avere una durata di quattro anni, prorogabili di due anni.

Il trattamento dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis è severo e prevede limitazioni alla socialità (isolamento e sorveglianza costante, ore d’aria, colloqui, incontri con i familiari limitati) e ai beni che il detenuto può tenere con sé in cella (sono esclusi, ad esempio, i libri e i giornali).

Al 31 ottobre 2022, i detenuti sottoposti al regime del 41 bis erano 728, l’1,3% degli oltre 56 mila detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani. Le donne al 41 bis erano 12, gli uomini 716. La quasi totalità dei 728 detenuti al 41 bis appartenevano ad associazioni di criminalità organizzata. Quattro detenuti sono, invece, legati a reati di terrorismo interno e internazionale: tra questi c’è Alfredo Cospito, oltre ai brigatisti Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi (dati della “Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia anno 2022”).

Chi propende per l’abolizione del regime differenziato, ne denuncia la discrezionalità nell’applicazione e le prassi degli istituti penitenziari di fissare ulteriori specifiche limitazioni trattamentali, come ad esempio, l’acquisto di fagioli o uova o, talvolta, l’uso del walkman, le giacche imbottite.

In tale direzione sembrano orientarsi alcune pronunce giurisprudenziali, tanto della Corte europea dei diritti dell’uomo – intervenuta sul caso Provenzano – quanto della Corte costituzionale, che hanno definito il regime del 41 bis un trattamento inumano e degradante, una modalità contraria al senso di umanità della pena, non ispirata a finalità rieducativa e, in particolare, non individualizzata.

Ad ogni modo, entrambe le Corti non hanno affermato l’illegittimità dell’art. 41 bis.

Senza dubbio il panorama è complesso e retto su delicati equilibri tra la tutela della collettività e la dignità e i diritti, costituzionalmente garantiti, dei detenuti.

Interventi normativi e pronunce giurisprudenziali hanno modellato la disciplina del “carcere duro” con l’intento di limitare la discrezionalità ministeriale nell’individuazione delle misure applicabili al regime del 41 bis e di garantire un più effettivo controllo del Tribunale di sorveglianza sui provvedimenti di applicazione e proroga del regime trattamentale.

Ma vicende come il “caso Cospito” rilevano che restano dei nodi irrisolti.

Ciò che è innegabile, mutuando ancora una volta le parole del Procuratore generale presso la corte di Cassazione, è che «lo strumento del regime carcerario speciale ex art. 41 bis non può giustificare la rarefazione e la compressione di altre libertà inframurarie».

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Per informazioni sulle statistiche del regime 41 bis clicca qui.

Per maggiori informazioni sul “caso Cospito”  si veda il sito istituzionale del Ministero della Giustizia.

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