«Ridare senso alla pena». È questo il monito di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, formulato in occasione della conferenza stampa di presentazione del XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione nel nostro Paese dal titolo “Il carcere visto da dentro”. Una considerazione, quella di conferire alla pena detentiva un rinnovato significato, che deriva soprattutto dall’impressionante aumento del tasso di recidiva.

Infatti, nonostante vi sia un calo del numero generale dei reati (in diminuzione del 12,6% rispetto al 2019) ed una diminuzione del numero dei detenuti in termini assoluti, si assiste – dati alla mano – ad un robusto aumento del numero medio di reati per persona (pari a 2,37 reati per ciascun detenuto, a fronte dell’1,97 del 2009) e ad un aumento del tasso di recidiva. Basti pensare che al 31 dicembre 2021 il 38% delle persone detenute era alla prima carcerazione; ciò vuole dire che il restante 62% delle persone era già stato in carcere almeno una volta, di cui il 18% cinque o più volte.

Questi dati ci consegnano quindi un modello carcerario che, per come è oggi, produce delinquenza. Se infatti chi esce dal circuito penitenziario torna a delinquere con la frequenza sopra indicata, significa che la pena detentiva non è riuscita a raggiungere la funzione che la nostra Costituzione gli assegna: tendere alla rieducazione e al reinserimento nel tessuto sociale dei condannati.

Il fallimento è riconducibile a diverse cause dettagliatamente descritte nel Rapporto.

Sicuramente molto dipende dal sovraffollamento carcerario, “problema storico” delle realtà penitenziarie italiane, il cui tasso ufficiale medio al 31 marzo 2022 era pari al 107,4% per un totale di 54.609 detenuti (seppure è risaputo che la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale).

Poi, tra le cause, vi è l’inadeguatezza dell’offerta trattamentale, che a volte comporta una acutizzazione dei problemi anziché una loro risoluzione. Basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, che seppure il lavoro costituisca un elemento cardine del trattamento rieducativo, secondo le stime di Antigone, meno di un terzo dei detenuti ha un’occupazione lavorativa, di cui il 33% alle dipendenze stesse dell’amministrazione penitenziaria.

Infine, vi è il fatto che il carcere, per usare le stesse parole di Gonnella, è «l’ultima frontiera del welfare state», cioè il luogo ultimo dove confluiscono tutte le problematiche sociali (di disagio, marginalità, povertà, etc.) che le politiche sociali e territoriali non riescono adeguatamente ad intercettare.

È dunque evidente che per sopperire a tali carenze strutturali e funzionali è necessario, da un lato, ridare senso alla pena, attraverso un nuovo modo di concepire il carcere, e dall’altro lato, imprimere un nuovo slancio alle politiche sociali e territoriali in un’ottica preventiva.

Del resto, un carcere che non funziona e che causa recidiva delinquenziale determina due conseguenze che, di fatto, si alimentano tra loro in una sorta di circolo virtuoso:

1) un carcere senza senso non mette al centro del “discorso” la persona umana e, quindi, non rieduca e non risocializza
 2) un carcere che esclude dal tessuto sociale le persone conduce inevitabilmente alla reiterazione di reati, riflettendosi così sulla sicurezza pubblica.

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Per leggere il XVIII Rapporto Antigone sulle condizioni detentive in Italia clicca qui.

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