I raccapriccianti fatti occorsi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non rappresentano l’unico episodio di abuso e di violenza nei confronti dei detenuti.

L’Associazione Antigone, da sempre impegnata ad informare su ciò che accade dietro le sbarre degli istituti penitenziari italiani, aveva segnalato, fin da subito, altri 18 processi penali per pestaggi e/o morti avvenuti in carcere: processi nei quali è stato contestato, tra l’altro, il reato di tortura.

Nella maggior parte di questi processi, risalenti anche al 2011, Antigone si è costituita parte civile.

Ad ogni modo, alla luce di tali atrocità lesive della dignità umana e dei valori di uno Stato che vuole definirsi civile, è evidente come il solo diritto penale non sia sufficiente a “limitare” il perpetrarsi di   una cultura di sopraffazione e di violenza tra coloro che indossano una divisa. Anzi, a volte è lo stesso sistema penale a “favorire” l’uso della forza da parte di chi quel potere lo esercita.

Come auspicato da Patrizio Gonella, Presidente dell’Associazione Antigone, occorrono interventi integrati, tra cui: «una migliore formazione della polizia penitenziaria; l’accettazione di un codice deontologico, così come prescritto dall’ONU; l’aumento nelle carceri di mediatori, psicologi, educatori; una video-sorveglianza in tutte le aree del carcere, come scale e sezioni di isolamento».

Uno strumento fondamentale per combattere gli episodi di violenza da parte delle forze di polizia e  per riaffermarne contestualmente il ruolo centrale nella protezione dei diritti e della dignità umana è quello proposto da Amnesty International (e dalla stessa Associazione Antigone) attraverso la Campagna “Mettiamoci la Faccia”, con la quale si richiede l’introduzione di una legge ad hoc che preveda codici o numeri identificativi alfanumerici individuali da esporre sulle divise e sui caschi degli agenti e i funzionari di polizia.

La presenza di tali codici, infatti, permetterebbe di identificare facilmente agenti e/o funzionari di polizia coinvolti in episodi di violenza, veicolando dunque un importante messaggio di trasparenza nei confronti dei cittadini, i quali vedrebbero le forze dell’ordine assumersi le responsabilità delle proprie azioni; al tempo stesso, tali codici rappresenterebbero uno strumento di garanzia per gli stessi agenti e/o funzionari che svolgono correttamente e con dedizione il proprio lavoro.

Nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea, identificare gli agenti di polizia che si occupano di ordine pubblico è già una regola diffusa: sono infatti 21 su 28 gli Stati membri che hanno introdotto tale misura dopo la Risoluzione del Parlamento Europeo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea, la quale esortava gli Stati membri in tal senso.

L’Italia, purtroppo, è tra i cinque Stati che non hanno in vigore una norma di tal genere che preveda, appunto, la riconoscibilità degli operatori delle forze di polizia nell’esercizio delle proprie funzioni. Le ragioni di tale mancanza? Quelle, soprattutto, di ordine culturale.

Infatti, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia «ad opporsi sono le stesse forze politiche, gli stessi sindacati di polizia e gli stessi commentatori che per quasi 30 anni, dal 1989 al 2017, si opposero al reato di tortura: si tratterebbe, sostengono, di un provvedimento criminalizzante o comunque pericoloso per gli agenti, quando in realtà non farebbe altro che tutelare la reputazione dell’istituzione, facilitando l’accertamento delle singole responsabilità».

Di certo, se l’Italia avesse adeguato la normativa come gli altri paesi UE, la situazione oggi sarebbe diversa.

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