L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che il disturbo depressivo maggiore colpisca ogni anno circa 350 milioni di persone in tutto il mondo e che la sua continua crescita esponenziale possa farlo diventare, entro il 2030, la prima causa di disabilità e sofferenza tra tutte le malattie.
Le persone con disturbi d’ansia o di depressione accedono molto raramente ai servizi sanitari e tra esse il minor ricorso si registra nella fascia d’età 18-24 anni. Ciò nonostante, si stima che oltre il 7% della popolazione generale (tra i 18 e i 64 anni) abbia sofferto di almeno un disturbo mentale “comune” nell’ultimo anno e quasi il 19% di almeno uno nella vita.
Questa la premessa epidemiologica del Documento finale di ricerca Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione n. 1/2022 recentemente pubblicato dall’Istituto Superiore di Sanità all’esito di un’indagine che ha coinvolto oltre 55.000 persone.
I dati raccolti hanno evidenziato che nel 2019, cioè prima della pandemia, i Dipartimenti di Salute Mentale erano in grado di rispondere a poco più del 55% del fabbisogno assistenziale di cura per disturbi mentali, dando necessariamente priorità ai disturbi mentali più gravi (la schizofrenia, il disturbo bipolare, le manifestazioni psicotiche e i disturbi dell’umore con particolari caratteristiche di severità) ed escludendo di fatto la presa in carico delle sofferenze psicologiche considerate “lievi”.
Tuttavia, afferma la ricerca, il carico di sofferenza e di disabilità dei disturbi mentali comuni è maggiore di quello dei disturbi gravi sia perché anche tra i primi vi sono forme estremamente invalidanti sia perché essi sono significativamente più diffusi, con importanti sofferenze personali ed enormi costi socio-economici per le ripercussioni che ansia e depressione determinano negli ambienti di vita e di lavoro.
Per favorire il riorientamento delle politiche di sanità pubblica nel campo della salute mentale, il Documento sottolinea la necessità di investire per l’individuazione precoce di tali disturbi, mettendo tutti i servizi sanitari territoriali (inclusi i servizi distrettuali di cure primarie, i consultori familiari, i servizi per la disabilità, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta) e i servizi di medicina penitenziaria nella condizione di poterli riconoscere precocemente senza che sia necessaria l’attivazione preliminare del servizio specialistico.
Secondo un approccio stepped care (cioè per passi graduali di cura), la prospettiva preferibile sarebbe quella di trasferire capacità di osservazione diagnostica già agli operatori sanitari di “primo livello” con la possibilità di attivare sui territori interventi psicoeducativi o di gruppo per prendere in carico tempestivamente la persona evitando una eccessiva medicalizzazione.
Gli interventi a più alta intensità comprendenti le psicoterapie, eventualmente integrate con terapia farmacologica, sarebbero assegnati ai servizi di salute mentale, posti come “nodi di rete” in una dimensione di cura orientata a favorire il trattamento prima che il disturbo diventi così acuto da essere invalidante.
Le forti raccomandazioni espresse dal Gruppo di lavoro della Consensus Conference, introdotte dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, sollecitano:
1) lo sviluppo di iniziative con specifica attenzione per l’infanzia e l’adolescenza;
2) la diffusione di corretta informazione tra la popolazione, i media e gli operatori sanitari;
3) la necessità di formazione specifica dei professionisti abilitati alla psicoterapia;
4) l’opportunità di adeguati stanziamenti per sperimentazioni di media-lunga durata in differenti contesti e sedi del territorio nazionale.
Se, non solo in Italia, il fallimento nel trattare le persone con disturbi d’ansia e di depressione è dovuto, oltre che dalla scarsa offerta di risposta, anche dalla scarsa domanda, diventa di conseguenza strategico investire per promuovere una maggiore conoscenza e consapevolezza di tali disturbi psicologici “comuni” per ridurre ridurre lo stigma ad essi associato e per facilitare l’accesso alle cure.
Investire in una comunicazione diffusa rivolta e adattata ai diversi gruppi target (operatori sanitari, popolazione generale e mondo della scuola) sfruttando le potenzialità dei mass-media e dei social network è una delle indicazioni forti lanciate all’esito di questo lavoro di ricerca.
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